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L’Italia delle diseguaglianze sociali - mercoledì 6 settembre 2006 at 16:22

L’Italia delle diseguaglianze sociali. Primo: redistribuire la ricchezza

di Alfonso Gianni

C’è chi comincia a pensare che questo governo Prodi sia nato davvero con la camicia. C’è invece chi, a denti stretti, attribuisce al passato governo delle destre il merito del miglioramento postumo della situazione economica. Comunque sia gli indicatori economici stanno volgendo al meglio. Non è il caso di fare salti di gioia, ma certamente l’incremento del Pil, che già avevamo previsto in un precedente articolo, viene autorevolmente confermato dall’Ocse che rivede le stime alzandole all’1,8%. La crescita italiana si situa ad un livello inferiore di quella di altri paesi europei, ma sembra che siamo ad una svolta rispetto alla stagnazione degli ultimi anni.

Il dibattito sulle cause di questa modesta ma sensibile ripresa economica è ovviamente tutto aperto. Ma intanto bisognerebbe evitare di sprecare il frutto di tanto lavoro mortificato, svalutato e malpagato, poiché se una qualche ripresa c’è, non altro che da quello deriva.
Naturalmente non basta fare il contrario per ottenere il consenso. Le destre quegli avanzi primari li hanno dilapidati e poi hanno perso, per la verità con minore scarto.

Il problema è dunque cosa fare delle nuove entrate per lo Stato, quelle già introitate e quelle che verranno come risultato del migliore andamento dell’economia simboleggiato, seppure rozzamente, dall’aumento del Pil. Se le nuove entrate finiranno nel calderone della riduzione forzata del debito, non vi sarà speranza di evitare tagli alle spese sociali e ancora meno di rilanciare i consumi popolari e aiutare gli investimenti produttivi. Né si può pensare di spostare i tagli negli anni successivi, poichè la scelta dell’abbattimento del debito sotto il 100% in cinque anni non conosce freni e comporterebbe la presentazione di finanziarie pesanti e dolorose anche per gli anni a venire. La stabilizzazione del debito, per un periodo congruo e concordabile, può invece liberare rilevanti risorse per una migliore giustizia sociale e per un nuovo sviluppo.

Ma è bene non soffermarsi solo sulla valutazione della congiuntura economica. In questo senso è assai utile prestare attenzione ai dati emersi su recenti e autorevoli studi, fra cui quelli del servizio studi della Banca d’Italia, sulla generazione e la ripartizione del valore aggiunto nel nostro paese. Le tabelle storiche costruite su questi studi dimostrano, come ha rilevato un importante giornalista economico come Maurizio Mucchetti su CorriereEconomia, che negli ultimi 25 anni, cioè nell’attuale periodo della globalizzazione capitalistica, la ricchezza destinata ai salari è scesa dal 70% al 48%. La modificazione è tanto più rilevante se si tiene conto che, considerando un periodo storico molto più ampio e l’intero bacino dei paesi capitalisti, i salari hanno rappresentato grosso modo i due terzi del valore aggiunto prodotto. Su questo dato si fonda il boom della borsa degli ultimi anni, poiché i dividendi assorbono più del 16% del valore aggiunto. Il risultato è stata la crescita enorme delle disuguaglianze sociali. Luciano Gallino ci ha ricordato su queste pagine che la dimensione di queste ultime collocano il nostro paese al terzo posto mondiale di questa non invidiabile classifica, dopo gli Usa dei neo-con e l’Inghilterra posttacheriana.

Ne dovrebbe conseguire che le politiche redistributive dovrebbero rappresentare il cuore di qualunque politica economica di un governo che si qualifichi di sinistra. Nel nostro caso quando nel programma dell’Unione abbiamo rifiutato la politica dei due tempi, cioè prima il risanamento e poi lo sviluppo, intendevamo proprio questo: che la rinascita economica e civile del paese cominciava dalla soddisfazione dei bisogni popolari inevasi e quindi dall’innalzamento della quota della ricchezza sociale prodotta da destinare ai redditi da lavoro. A questo aggiungiamo il sostegno alle attività produttive, specialmente quando queste si misurano con il grande problema dell’innovazione di prodotto, che non può essere declinato solo sul versante della maggiore competitività, ma soprattutto riguarda il cambiamento del modello dei consumi e della società.

La discussione finalmente iniziata nella maggioranza sulla legge finanziaria, deve tenere conto di queste coordinate di fondo e non può limitarsi alla riduzione del danno provocato da una cattiva scelta di politica economica.

Il problema della riduzione del debito, la cui sostenibilità non ha comunque un livello oggettivamente definibile, ma è funzione di una scelta politica, viene logicamente, economicamente e temporalmente dopo.

Invece le vestali del rientro coatto e forzato dal debito intensificano le loro reprimende in misura inversamente proporzionale alla forza dei loro argomenti. Gli economisti dell’Ocse si sono affrettati a dire che sono delusi dalla parziale riduzione dell’entità della manovra finanziaria italiana e che l’Italia non si deve attendere sconti dall’Europa in virtù del miglioramento della situazione e dei conti economici. Tito Boeri e C., dal loro celebrato sito, ci ammoniscono che la riduzione del debito va intensificata nei momenti buoni dell’andamento economico di un paese e non in quelli cattivi (in bad times). La palma dell’ultrà può essere assegnata a Lorenzo Bini Smaghi, membro italiano dell’organismo dirigente della Bce che proclama che la manovra va fatta subito, ci vuole la riduzione delle pensioni, non basta scendere al 3% nel disavanzo, ma bisogna andare sotto il 2% quanto prima.

Per fortuna non si levano solo queste voci ma anche quelle delle organizzazioni sindacali e anche di alcune organizzazioni di categoria che considerano indigeribili i tagli alla spesa sociale prospettati nel Dpef di luglio, e finora ribaditi dal Ministro dell’economia, e l’assenza di misure verso un nuovo sviluppo. La prospettiva di uno sciopero generale incombe sul nostro neonato governo di centrosinistra e se può essere salutato come un segnale della ripresa di una sana dialettica e di un robusto conflitto sociale, certo non testimonia di un allargamento di consenso sociale per la maggioranza e il governo, del quale invece avrebbero assolutamente bisogno. Aveva pienamente ragione Luigi Cavallaro, nell’articolo di ieri su queste pagine, nel ricordarci che la sconfitta dell’Ulivo nel 2001 giunse dopo un “ciclo virtuoso” di avanzi primari di bilancio.
6 settembre 2006

Fonte: Liberazione Online



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