News Item

View All News Items

Comunismo e nonviolenza - mercoledì 3 marzo 2004 at 11:02

Le conclusioni di Fausto Bertinotti al seminario di Venezia
Comunismo e nonviolenza

Venezia . In queste due giornate siamo riusciti a costruire un evento significativo, al di là delle sue dimensioni: il segno concreto della possibilità, per noi, di procedere in una ricerca del tutto innovativa ma anche molto difficile, com'è ovvio. Voglio perciò anzitutto ringraziare i compagni veneziani e veneti che hanno organizzato questo appuntamento, i relatori che sono intervenuti e più in generale tutti i partecipanti. La scelta iniziale - quella di aprire il convegno con una serie di introduzioni tra di loro omogenee relativamente all'opzione nonviolenta - aveva il senso di marcare con forza una linea di ricerca, non certo di limitare il confronto. Una parte del partito, che non condivide questa impostazione, ha preferito non esserci - e me ne rammarico, giacché l'assenza non è mai una forma di comunicazione interessante. Ad ogni modo, la "giusta punizione" è soprattutto quella di essersi perduti un'occasione di discussione intensa, appassionata, partecipata.
Molti, dentro e fuori il nostro Partito, ci hanno interrogato sul perché, qui ed ora, di questa ricerca. Davvero si trattava o si tratta di una priorità politica e culturale così stringente? Voglio dirlo subito: questa scelta non nasce dalla astratta ripresa di una tematica non inedita nella nostra storia e in quella del movimento operaio, ma dal rapporto con il Movimento sul quale abbiamo investito tanta parte della nostra iniziativa politica. E' una scelta, l'abbiamo già detto, che ci espone, ci mette a rischio, ma ne abbiamo bisogno per rendere efficace l'azione politica e ritrovare il bandolo della lotta per la trasformazione. Per costruire una risposta, anche e soprattutto, alla crisi attuale della politica - se non vogliamo ridurla ad una pura alternanza di ceti. Deriva da qui la necessità di fare i conti con la nostra storia, compito che anch'esso non ha alcun carattere ideologico o astratto: dobbiamo capire perché e dove siamo stati sconfitti. E capire «ciò che è vivo e ciò che è morto» dell'esperienza che ci sta alle spalle, in un'indagine critica di tutto il nostro passato che ha i caratteri dell'Angelus Novus di Walter Benjamin.


Un'"invenzione"?

Dunque, non ce la siamo inventata, questa ricerca, pur in una fase sociale contraddistinta dalle priorità che sappiamo - la crisi sociale, i salari e le pensioni, il carovita. Consentitemi una battuta: siamo riusciti a discutere con passione per due giorni, senza mai parlare di Berlusconi. Vi pare poco?

E' a Genova che questa riflessione è iniziata. In quelle giornate in cui è stata ordita una repressione sistematica del movimento, con forti connessioni internazionali, dove in quei giorni nei fatti è stato sospeso lo Stato di diritto, dove, però, il movimento ha risposto con un comportamento di massa nonviolento. Dove, insomma, è stata evitato l'avvio di una spirale classica repressione/lotta/repressione. Poi, s'intende, il movimento ha seminato, contaminato, rilanciato altre esperienze, altri conflitti - da Scanzano agli autoferrotranvieri, fino al più generale movimento per la pace. E' pur vero che una mobilitazione di così straordinaria entità non ha fermato la guerra. Ma non possiamo non vedere che, nel corso di questi ultimi due anni, sono state poste le basi per la nascita di un nuovo soggetto mondiale, partecipato e radicale, alternativo e articolato, che investe tutti gli ambiti della società, dell'economia, delle relazioni umane. Io credo che la nonviolenza sia l'unico strumento che può consentire il pieno dispiegamento di questa radicalità.


La violenza del nostro tempo
La nonviolenza oggi necessaria è anche la risposta più efficace alla colossale violenza raggiunta dal capitalismo del nostro tempo. Penso a due risposte estreme: quella dei neocons americani e quella del fondamentalismo religioso, ambedue legate alla globalizzazione e alla sua crisi. Quando la pervasività dello sfruttamento arriva a un tale "sfondamento globale" (sul vivente, sulla mercificazione inaudita della scienza e della tecnica, sul lavoro precario come realtà strutturale, sulla cultura), quando il furto del tempo da parte dell'impresa e del mercato diventa un dato dominante, quando l'instabilità politica e sociale è la regola e si consuma il consenso delle classi dirigenti, vuol dire che quel che si va corrodendo irreversibilmente è la democrazia - e con essa la convivenza civile. Infatti, non siamo più a quel che diceva von Clausewitz, «la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi»: siamo alla secca sostituzione della politica con la guerra. E le classi dominanti del nostro tempo non fanno la guerra in virtù della loro forza, ma della loro debolezza.

Come si salva la possibilità di un'alternativa? Anche e soprattutto superando la spirale proposta dalla tenaglia distruttiva guerra/terrorismo. Dove il terrorismo esercita un ruolo reazionario e repelle non solo per i suoi mezzi, ma per i suoi fini.


Etica e politica
In questo quadro drammatico, siamo spinti ad una scelta nonviolenta che si colloca interamente nell'ambito della politica. Io sento il fascino di un'opzione etica, e lo rispetto. Ma come Partito siamo chiamati ad operare su un terreno diverso: non esiste oggi una critica più radicale, contro questo capitalismo, e questa rivoluzione restauratrice, regressiva e violenta, della nonviolenza. Proprio questo tema ci conduce, giocoforza, alla questione del potere, inteso non soltanto come potere del padrone, ma in tutte le sue relazioni, lavoro, riproduzione sociale, rapporto tra i sessi. Noi, che non siamo anarchici, non abbiamo certo del potere una visione satanica. Ma non possiamo, all'opposto, considerarlo, viverlo come una macchina più o meno neutra. Dobbiamo sempre contestualizzarlo, è vero, ma non possiamo concepirlo solo in questa chiave: non c'è più solo un problema di contesto, ma di sua natura profonda.


Mezzi e fini
Qui siamo ad una delle questioni cruciali: il rapporto tra mezzi e fini, che spesso viene affrontata in termini estremisti. Vogliamo assumere come nostra la raccomandazione di Gandhi sulla necessità di «curare i mezzi»? So anch'io che non sempre è possibile una congruità totale tra strumenti e finalità. Ma non possiamo più eludere la questione della coerenza - della tensione alla coerenza - tra gli obiettivi generali ("strategici") che ci proponiamo e i modi con cui cerchiamo di realizzarli.

Soprattutto, siamo chiamati a riflettere sui fini stessi. Se il fine è il comunismo come «modello chiuso», se il comunismo è un'idea predeterminata, da manuale, l'uso della forza - e della violenza - diventa preminente. Ed è quasi inevitabile che lo diventi. Se il fine, invece, è un «modello aperto», la nonviolenza è uno strumento ad esso congeniale. In fin dei conti, di che cosa stiamo parlando se non di quel limite della politica che ci vieta, per esempio, di assegnare ad essa la ricerca della felicità? Non in Marx, ma nella vulgata marxista è stata presente, a lungo, l'idea della fine della storia: un paradigma che oggi non può essere nostro. Come non può essere nostra l'idea di un «uomo nuovo», al quale lo Stato e la politica doneranno felicità, eguaglianza, redenzione. La Rivoluzione come processo di liberazione, il comunismo come possibilità della storia, sempre ad essa immanente e mai ad essa trascendente. Il comunismo come - se è lecita un'analogia - il viaggio ad Itaca di cui parlava Kavafis.


Un'opzione relativa
In questo quadro, anche l'approdo alla nonviolenza costituisce un approdo relativo. Non è un assoluto. Non è, men che mai, una nuova ideologia che sostituisce le vecchie ideologie. Non è il nuovo passe-par-tout che apre tutte le chiave del reale. E non è neppure una cattedra dalla quale impartire lezioni. Io credo, per esempio, che nessuno di noi può permettersi di condannare la resistenza armata all'invasore, che consideriamo invece un diritto dei popoli invasi (e perfino il tirannicidio è consentito, anche nel quadro del pensiero liberale). E credo altresì che non avrebbe alcun senso proiettare nel tempo e nello spazio la categoria della nonviolenza, con una sorta sia di visione retroattiva della storia sia di uniformità geografica. Nel mondo di oggi, piuttosto possiamo assumere l'esempio dall'esperienza zapatista, una nuova idea di limite: deporre il fucile prima che la persona diventi una protesi del fucile, invece che il contrario. Nel rapporto con il passato, dobbiamo vedere dove abbiamo sbagliato. E' pur vero che siamo nani seduti sulle spalle di giganti: ma perché non approfittare di una collocazione che, appunto, ci consente di vedere meglio l'orizzonte?


Padri e madri del '900
Qui, consentitemi, continuiamo troppo spesso a comportarci come nel '68, quando, nell'ultima grande stagione rivoluzionaria, con l'operaio di serie e lo studente di massa come protagonisti, ci dividevamo anche aspramente sulle filiazioni dirette dai grandi rivoluzionari del secolo. Mi pare che non possiamo discutere oggi come se, per dire, in questa platea fossero seduti, insieme a noi, Lenin, Trotsky, Rosa Luxemburg e (magari no) Stalin. Mi pare che Marco Revelli afferma che, per noi oggi, sarebbe disastrosa una tesi come quella esposta da Leone Trotsky in Terrorismo e comunismo, non mette sotto accusa la figura di Trotsky: ovvero, usa quel testo come avrebbe potuto usarne un altro, per sottolineare i limiti di una cultura politica che era comune, allora, all'intero gruppo bolscevico. Una constatazione che non ci impedisce certo di riconoscere i grandi meriti di Trotsky nella denuncia della degenerazione burocratica (ben superiore alle analisi di Max Weber). Così come all'inverso non c'è alcuna assunzione di Rosa Luxemburg come nuova icona della nostra storia - lo dico a partire dal fatto che ho una grande passione per questa nostra "madre" e antenata. Io preferisco riferirmi alla lezione di Rosa Luxemburg, insomma, perché trovo nei suoi scritti molte cose che ci parlano oggi - ci servono. So bene che molti compagni hanno altri punti di riferimento - Lenin, Trotsky - e si tratta certo di una scelta politico-culturale legittima. Insomma: non trasformiamo il nostro dibattito in conflitto ideologico tra leninisti. marxisti-leninisti, maoisti, trotskysti, stalinisti. Non ci porta da nessuna parte. L'indagine critica che dobbiamo fare è di tutt'altra natura e senso: rompere non con i padri e le madri ma con le culture e le concezioni che si sono rivelate sbagliate, deboli, o devastanti. Imparando anche dalle sconfitte. Spesso, chi è stato sconfitto ha prodotto "pensieri forti", più forti di coloro che hanno vinto. Io (non credo io solo) ho imparato molto da Pietro Ingrao, in minoranza del Pci, e dal Trotsky battuto e perseguitato da Stalin.


Altre lezioni
Su questa linea, non saprei pensare la nostra ricerca senza contributi come quello del movimento cattolico, come quello di Aldo Capitini e Danilo Dolci. In ultima analisi, Marx ricordava che la liberazione umanità non avviene nella sfera della politica, ma nella società. La nonviolenza, in quest'ottica, potrebbe davvero essere la «Terza via» tra conquista del potere per via insurrezionale e via elettorale. Lo strumento più coerente verso il comunismo. Un comunismo che non ha nulla di eroico, o di monumentale, ma ha molto a che fare con la lotta quotidiana per la trasformazione.

Fausto Bertinotti

(3 marzo 2004)


Fonte: Liberazione online

home page


Per inviare una tua notizia alla redazione, posta qui:

news per la redazione altomesima



Powered by Web Wiz Site News version 3.05
Copyright ©2001-2002 Web Wiz Guide