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Le vere strozzature per le piccole imprese sono.. - sabato 14 giugno 2003 at 10:12
Art. 18: le vere strozzature per le piccole imprese sono innovazione, ricerca e accesso al credito

Il voto sul quesito referendario relativo all’estensione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che impone il reintegro del lavoratore licenziato senza “giusta causa” anche nelle imprese con meno di 16 addetti, è ormai imminente. Il principio da cui il referendum parte è elementare. Stabilire l’universalità dei diritti del cittadino-lavoratore. Tutelare la dignità della persona nel lavoro alle dipendenze. Tramite questa deterrenza, rendere possibile al dipendente una efficace azione sindacale, libera da ricatti.
Sul terreno dell’analisi economica si dice spesso che quelle che precedono saranno magari argomentazioni eticamente ammirevoli, ma purtroppo sono prive di una loro razionalità economica. Vale allora la pena di considerare alcune obiezioni al sì, ragioni che vengono avanzate tanto da governo e Confindustria, quanto da parte del sindacato e del centrosinistra: ambienti che non possono non essere messi in difficoltà da una caratteristica del referendum, quella di neutralizzare la pretesa ragione per cui nell’accordo siglato da Cisl e Uil si “derogava” all’applicazione dell’articolo 18. Si sarebbe così consentito alle piccole imprese di crescere, evitando una loro penalizzazione per la maggiore dimensione. Se però il referendum ottenesse il quorum e vincessero i sì, il trattamento giuridico diverrebbe identico quale che sia la dimensione, e cadrebbe ogni vantaggio dimensionale del restare piccoli, senza “deroghe” ai diritti.
Si sostiene che l’estensione dell’articolo 18 toccherebbe larga parte del mercato del lavoro dipendente, mettendolo fuori mercato. Circolano innanzi tutto stime esagerate sull’entità numerica dei lavoratori interessati. Prendendo i dati dalla rilevazione trimestrale sulle forze di lavoro del gennaio 2003, dei 21.824.000 occupati, 15.696.000 sono dipendenti (di cui, in migliaia, 13.307 permanenti a tempo pieno, e dei 2.389 a termine e/o a tempo parziale solo 979 permanenti a tempo parziale). Se si detraggono, oltre agli apprendisti, quelli sopra la soglia dei 15 dipendenti, quelli a tempo determinato, e così via, rimangono circa 3 milioni di dipendenti nelle vere e proprie “imprese” con meno di 16 dipendenti, più i lavoratori dipendenti dalle cooperative e dalle non profit, sino ad un totale di potenziali interessati dal referendum che è vicino ai 4 milioni.
Il calcolo all’inverso è altrettanto istruttivo, e lo ha fatto Andrea Fumagalli su “Global”, n. 2. Dei circa 6,5 milioni di presunti indipendenti, detratti gli oltre 2 milioni di co. co. co, gli amministratori, chi lavora per conto terzi individualmente, etc., in teoria solo 3.100.000 potrebbero assumere una persona a tempo indeterminato, ma di fatto solo 1.800.000 ha almeno un dipendente, e la maggior parte con contrattazione atipica. Insomma, non più di 450-480 mila unità verrebbero coinvolte dal referendum.
Peraltro, se l’insieme delle piccole imprese vivesse sul mercato solo grazie a diritti dimezzati (e certo questo non corrisponde nella sua interezza alla realtà della piccola dimensione) l’interesse “nazionale” non sarebbe proprio quello di eliminare questa situazione patologica, costringendo queste imprese a innovare, o a lasciare il campo a quelle unità che sono invece intenzionate a competere sulla qualità e nella pienezza dei diritti? E non si venga a dire che esiste un problema di costo del lavoro nel caso italiano: se si va a guardare la nostra posizione nella competitività di prezzo essa è purtroppo già ora fin troppo elevata, e ci vede agli ultimi posti nell’Unione economica europea per costo del lavoro, orario o per unità di prodotto.
Come è noto che la mobilità dei lavoratori tra imprese è paragonabile a quella degli Stati Uniti - e proprio nel Centro-Nord dove più elevata è l’occupazione e anche la presenza del sindacato. Su queste colonne, poi, Emiliano Brancaccio ricorrendo agli studi dell’Oecd (Organization for economic cooperation and development, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, detta anche Ocse, ndr), della Banca d’Italia, e dello stesso Centro Studi di Confindustria ha smontato con rigore ed efficacia i miti diffusi secondo cui sarebbe l’articolo 18 a pregiudicare la crescita dimensionale delle imprese, o secondo cui la protezione dei lavoratori disincentiverebbe le assunzioni e creerebbe disoccupazione.
Il vero vincolo per le piccole imprese sta semmai nella condizione disastrata della politica per l’innovazione, della politica industriale, della politica del credito e della Borsa che rende particolarmente oneroso l’accesso alle risorse finanziarie. Sono queste le strozzature vere. Gioca anche, senza però essere specifico alle piccole imprese l’insieme di politiche restrittive imposte dal Patto di stabilità e dagli orientamenti della Banca Centrale Europea. Ed è chiaro che la scomparsa di interi settori industriali e le conseguenze della crisi terminale della grande impresa, oltre che la stagnazione europea e la crisi più generale dell’economia mondiale, non possono non ricadere sulle imprese di piccola e piccolissima dimensione.
Tutto ciò impone però come risposta, non più deregolamentazione nel mercato del lavoro e meno diritti, ma più intervento attivo e di indirizzo dello Stato per riunificare sviluppo economico e progresso sociale (su questo punto tornerò). A chi replicasse che l’esempio statunitense è la dimostrazione del contrario si può rispondere che, per un verso, quell’esperienza negli anni della new economy è stata esemplare della natura politicamente trainata della prosperità; ma anche, per l’altro verso, che negli anni della recessione essa fa toccare con mano come la precarizzazione del mercato del lavoro, il dilagare della disuguaglianza, la finanziarizzazione dell’economia abbiano prodotto una crescita malsana e insostenibile, destinata ad esaurirsi con altrettanta rapidità e virulenza, con elevati costi sociali ed economici.
Vi è, per la verità, un argomento più insidioso, proclamato a destra come a sinistra (e talora anche all’estrema sinistra): il referendum sarebbe inutile perché le tutele richieste dal nuovo mercato del lavoro sarebbero “ben altre”. Vi è qui un nucleo di verità. E’ certo che i nuovi lavori sono sempre più frantumati e incerti. E’ sicuro che la reintroduzione di intermediari per la somministrazione di manodopera, il lavoro a progetto, i buoni lavoro, e così via enumerando le figure del lavoro atipico, sino al lavoro in due, lo staff leasing, il lavoro a chiamata, configurano tanto una straordinaria estensione in forme aggiornate del lavoro dipendente dal capitale quanto una trasparente esemplificazione della nozione marxiana di “astrazione” del lavoro, secondo la quale il lavoratore è ridotto nel capitalismo a mera appendice della sua capacità di lavorare. La ricerca ossessiva della “flessibilità” - avviata, va detto, dal centrosinistra nelle sue varie incarnazioni: prima da Prodi, poi da D’Alema e Amato - con i provvedimenti del governo Berlusconi nell’ultimo anno è sfociata in una attività legislativa che mira ad accompagnare e incrementare l’esplosione dei lavori precari senza che se ne veda la fine. Tutto ciò pone problemi enormi. Ma se ne conclude che su questo universo poco potrebbe la mera estensione dell’art. 18 alle imprese sotto i 16 dipendenti; unica risposta efficace sarebbe una legge di tutela dei nuovi lavori. La conclusione è però falsa.
Per dirne una, la delega sul mercato del lavoro apre alla possibilità di smembrare a piacimento la propria impresa in unità più piccole e giuridicamente indipendenti, accampando una presunta autonomia funzionale: il che, con la normativa attuale, significa il rischio di far uscire dalla tutela dell’articolo 18 anche parte più o meno significativa dei lavoratori attualmente impiegati in imprese oltre i 15 dipendenti. Il referendum è qui massimamente efficace. Se poi la mera estensione dell’art. 18 a tutto il lavoro a tempo indeterminato non basta a risolvere i problemi del lavoro, precario e atipico, non si vede come si possa opporre la via legislativa al referendum con la maggioranza attuale. Un testo legislativo favorevole al mondo del lavoro può nascere solo sull’onda di una adeguata pressione dal basso. E di nuovo il referendum si rivela essenziale.
Così come pare un po’ singolare la tesi, anch’essa diffusa, che maggiori “protezioni” per i lavori oggi non garantiti si possano strappare tutelando di meno il lavoro che oggi mantiene ancora una qualche garanzia: una strategia del genere non è andata bene per vent’anni di concertazione, chissà perché dovrebbe andare bene oggi... Insomma, referendum e legge sono complementari, nel senso che una vittoria dei sì è la premessa necessaria a far uscire la via legislativa per una tutela di questi lavori dal limbo delle buone intenzioni, nell’unico modo politicamente realistico. Così come una vittoria del sì faciliterebbe la lotta per i lavoratori che il referendum non è in grado di coprire, i quali hanno tutto da perdere dalla sconfitta o irrilevanza dei sì.
Credo che la questione essenziale sia quella di capire la posta in gioco, che è meno ovvia di quanto sembri. Se si guarda agli ultimi anni, si osserva, che benché gli avviamenti al lavoro avvengano in modo sempre più precario, i nuovi occupati sono invece in prevalenza a tempo indeterminato, contro il senso comune prevalente ovunque. Come mai? Il fatto è che la “flessibilità” del lavoro è qualcosa di meno semplice di come si pensa usualmente. La flessibilità “organizzativa” o “interna” va distinta accuratamente dalla flessibilità “esterna”. Quest’ultima, con la libertà di licenziare, reagisce alla congiuntura modificando la quantità di manodopera impiegata, e scarica sul mercato del lavoro l’esigenza di flessibilità della produzione. La flessibilità “interna”, invece, rende elastico l’impiego delle risorse e presuppone, a differenza della flessibilità “esterna”, continuità del posto di lavoro. Le imprese hanno bisogno vitale, nelle nuove condizioni di mercato e con le nuove tecnologie e forme organizzative, di forza lavoro stabile, che accumuli esperienze sul luogo di lavoro: per essere competitive devono insomma accumulare un capitale cognitivo incorporato nella propria forza lavoro, e questo capitale cognitivo si disperde con un turnover altissimo della manodopera.. Ciò però richiede un’organizzazione del lavoro che riconosca nei lavoratori, che di questa conoscenza e di questo capitale sono portatori, una componente fissa di questo investimento, non una variabile di aggiustamento alle esigenze temporanee della congiuntura.
E allora come mai il Libro Bianco, la delega sul mercato del lavoro, l’attacco al contratto collettivo e nazionale, la finzione che il lavoratore possa, “scegliendo” il lavoro, scegliere la tutela che preferisce, insomma perché il lavoro precario se l’impresa ha al tempo stesso bisogno di continuità? Lo chiarisce come meglio non si potrebbe Vittorio Rieser su “Rinascita” del 2 maggio. L’obiettivo è "quello di accrescere il comando/controllo sul lavoro, riducendo le capacità di controllo esercitato dalla contrattazione e sottoponendo i lavoratori ad un percorso sempre oggetto di ricatto: io azienda ho bisogno che tu stia con me, ma ti faccio fare due anni come collaboratore, due con contratti a termine, due con contratto di formazione-lavoro e alla fine - se ti sei comportato bene - ti assumo a tempo indeterminato (o ti licenzio, se per qualche ragione sei diventato “esuberante” od “obsoleto”)". Se prevale il lavoro “usa e getta”, come scrive Luciano Gallino su “Repubblica”, l’inefficienza organizzativa aumenta e si scivola sempre di più nel degrado industriale. Se invece l’esito è di accoppiare precarizzazione e continuità del lavoro, si separa crescita economica e progresso sociale con effetti comunque negativi, a lungo termine, anche sul primo terreno. Non è una bella scelta.
O questo modello viene contrastato e battuto, o resterà il rapporto di forza individuale tra lavoratore e padrone, con quel che segue. Di fronte a questa prospettiva si misura il limite della discussione attuale nella sinistra critica e antagonista. Sostenere, come hanno scritto sul numero 2 di “Global” Bascetta e Bronzini, che la vera soluzione non è la garanzia di reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo ma è il reddito di cittadinanza, che assicurerebbe elementari condizioni di vita senza obbligare a condizioni di subordinazione, significa credere che questo modello di estrazione del plusvalore sia di fatto stabile e la sua crisi passeggera, e che per di più gli si possano imporre misure redistributive egualitarie (e per giunta per il tramite erogazioni meramente monetarie). Un mondo di fantasia.
Pensare, all’opposto, che un diverso modello di produzione e distribuzione lo si raggiunga partendo dal corno dello Stato, quasi che si possa cambiare la condizione del mercato del lavoro dall'alto con sole manovre macroeconomiche (pure necessarie) e restaurare un Welfare State degno di questo nome (che redistribuisca mediante erogazioni in natura) senza l'introduzione di un vincolo sociale, è altrettanto illusorio. Negli anni del “ritorno allo Stato” da destra, non dovrebbe essere difficile da capire.
Non è mettendo al centro il reddito o lo Stato, ma mettendo al centro il lavoro, che può partire una controffensiva: ricreando le condizioni dell’unità dei lavoratori, instaurando un sistema di regole e di tutele, rendendo operativo quel vincolo sociale che virtuosamente possa interagire con un diverso attivismo dello Stato. Una diversa qualità delle politiche pubbliche richiede di ripristinare le condizioni di base di una dialettica di classe, ed è a sua volta condizione di quella nuova qualità dello sviluppo in grado di consentire l’introduzione di interventi redistributivi come il reddito di esistenza, universale e incondizionato, o la riduzione d’orario di lavoro a parità di salario.
E’ su questo terreno che si colloca l’iniziativa referendaria. Da troppo tempo ormai ci si limita a resistere all’attacco dell’avversario di classe. Qui si propone un’idea alternativa di società: quella dei lavoratori come soggetti che nel lavoro devono trovare realizzazione, dignità e sicurezza. Quale che sia la dimensione d’impresa e quale che sia la forma contrattuale. E’ ovvio che non basterà: perché un diritto esiste nella misura in cui si sarà in grado di esigerlo, e questo richiede un duro lavoro di ricostruzione dal basso del movimento dei lavoratori. Ma bisogna pur crearne le premesse, e muovere i primi passi.
Riccardo Bellofiore
14 giugno 2003

Fonte: Liberazione online



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