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L'11 aprile 1963: Enciclica, Pacem in Terris - venerdì 11 aprile 2003 at 16:43
Quaranta anni fa, l'11 aprile 1963, Giovanni XXIII proclamava la sua enciclica forse più nota, la Pacem in terris, ovvero De pace omnium gentium, come suona la sua titolatura ufficiale. Un documento che ha colpito la coscienza universale, diventando quasi parte dell'arredo etico condiviso ... almeno per il suo incipit. Infatti i contenuti, con l'andare del tempo hanno perso in qualche modo di nettezza, e la ricchezza delle argomentazioni si è ingrigita, con il rischio di ridursi a slogan. La costruzione della pace, al contrario, esige di fondarsi sul severo realismo cristiano, cioè sulla Parola e gli insegnamenti sedimentati in un lungo arco di secoli.
"La pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell'ordine stabilito da Dio" ... È bene ricordare il presupposto da cui muove tutto il discorso giovanneo. Esiste, dunque, un Ordine universale voluto dal Signore che riguarda i comportamenti dei singoli e l'insieme delle relazioni sociali: pensare ad una quiete separata dalla natura delle cose create sarebbe ridurre la pace ad una sorta di tregua, ad un silenzio delle armi, ad una tacitazione della forza del tutto occasionale ed effimera perché priva di un'interna ragione obbligante. Ecco perché l'enciclica bilancia accuratamente la sfera dei diritti con quella dei doveri personali e sociali, per quanto ardui ed apparentemente obsoleti possano oggi sembrare. Solo la libera assunzione delle reciproche responsabilità assicura il futuro se è vero, come scrive la Pacem in terris, che "una convivenza fondata soltanto su rapporti di forza non è umana".
La pace non è solo sentimento o folgorazione emotiva ma paziente costruzione di un mondo nuovo. Giovanni Paolo II ha di recente richiamato proprio i quattro requisiti che Papa Roncalli aveva posto a fondamento dell'enciclica: verità, giustizia, amore e libertà. "La convivenza umana ... deve essere considerata anzitutto come un fatto spirituale". L'ordine che la deve innervare "è un ordine che si fonda sulla verità; che va attuato secondo giustizia; domanda di essere vivificato e integrato dall'amore; esige di essere ricomposto nella libertà in equilibri sempre nuovi e più umani". Non ci sono scorciatoie o corti circuiti possibili, non si dà pace accantonando qualcuno dei materiali necessari alla edificazione della nuova casa comune per tutti gli uomini.
Oggi la sfida è rappresentata dai rapporti fra le comunità politiche che non sono sottratte come tali ai principi e alle norme che riguardano quelli tra gli uomini. "La stessa legge morale che regola i rapporti fra i singoli esseri umani, regola pure i rapporti tra le rispettive comunità politiche". Non c'è un'etica speciale per le potenze, niente e nessuno può dirsi legibus solutus: Giovanni XXIII è ricorso, a questo punto, all'autorità del vecchio Testamento, traendone un ammonimento per i grandi della terra. "La potestà è stata data a voi dal Signore e la dominazione dall'Altissimo, il quale disaminerà le opere vostre e sarà scrutatore dei pensieri". Non è la vittoria come tale il suggello ultimo della giustizia, perché c'è qualcuno che legge oltre le battaglie. Ci sono delle differenze evidenti tra le comunità politiche: di forza, di cultura, di disponibilità di beni, "ma ciò non può mai giustificare il proposito di far pesare la propria superiorità sugli altri; piuttosto costituisce una sorgente di maggiore responsabilità".
Il mondo, Giovanni XXIII lo sapeva bene, non è il giardino dell'Eden. Il conflitto esiste nelle cose, il male può insinuarsi nelle migliori intenzioni. Importa tuttavia stabilire una precisa norma relazionale: "i contrasti vanno superati e le rispettive controversie risolte; non con il ricorso alla forza, con la frode o con l'inganno, ma, come si addice agli esseri umani, con la reciproca comprensione, attraverso valutazioni serenamente obbiettive e l'equa composizione". In questo senso l'eredità del ventesimo secolo non è ancora esaurita, e rimane pertanto l'auspicio formulato con un trasparente latino fin dai tempi della prima guerra mondiale, per cui la Societas Nationum sappia diventare una Fraternitas Nationum. Tutto dipende dall'accoglienza che si farà all'ordine pazientemente delineato da Papa Giovanni, incarnazione dell'annuncio di quel Principe della pace in cui riposano le nostre speranze.
GIORGIO RUMI
(L'Osservatore Romano - 11 Aprile 2003)

Fonte: L'Osservatore Romano online

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