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''Così si favorisce il lavoro indecente'' - domenica 3 agosto 2003 at 12:06
01.08.2003
«Così si favorisce il lavoro indecente»
di Oreste Pivetta

MILANO - Raggiungiamo Luciano Gallino, professore di sociologia all’università di Torino, autore del recente La scomparsa dell’Italia industriale (Einaudi) uno dei più attenti e acuti osservatori della società italiana, in vacanza in Bretagna, per un aggiornamento: siamo al via di una legge contrastata e famosa, la legge 30, quella divulgata dal governo come legge Biagi, propagandata come la legge che dovrebbe dare un lavoro a tutti.
Sarà così, professore?
«Intanto lascerei stare il povero Biagi e la chiamerei legge 30. Hanno provato a metterla al riparo dalle critiche attribuendola al professore ucciso dai terroristi. In questa legge si esprime la debolezza del sistema delle imprese che, ormai incapace di innovazione e di reale invenzione nel campo dei prodotti e dei processi, punta sulla compressione del costo del lavoro che si ottiene cercando di utilizzare esattamente la quantità di forza lavoro necessaria in un certo momento del ciclo produttivo. Il lavoro a chiamata, il lavoro intermittente, le tante forme di part time, eccetera, quali che fossero le intenzioni dei proponenti la legge, servono a questo: rendere una quota della forza lavoro più adattabile alle esigenze del ciclo produttivo e alle variazioni dettate dal mercato o dal ciclo tecnologico».
Almeno un effetto razionalizzante questa legge l’avrà?
«Ma è un aspetto che trovo particolarmente negativo: è una legge che dà una forma giuridica istituzionale a diversi tipi di lavoro precario, che altrimenti si potrebbe definire “poco dignitoso” o “povero di contenuti”. Nel 1999, l’Ilo, l’International labour organization, tenne la sua seduta plenaria a Ginevra, per discutere di un argomento: le travail decent. Cioè il lavoro decente, cioè il lavoro dignitoso, umano. L’Ilo ha compiuto rilevazioni sia a livello paesi sia a livello imprese per vedere quali sono paesi e imprese che offrono tassi più o meno elevati di lavoro dignitoso... L’Ilo ha definito il lavoro dignitoso attraverso una serie di parametri piuttosto precisi: la sicurezza dell’occupazione, la sicurezza del reddito, il riconoscimento delle proprie capacità professionali e altre cose del genere... Ebbene: una legge come la legge 30 con i suoi decreti attuativi nega quasi tutti i parametri dell’Ilo».
Che non è un’organizzazione sindacale...
«Appunto. Il bello è che si tratta di una organizzazione in cui sono rappresentati i governi, i sindacati, le associazioni padronali, un’organizazzione tripartita, sempre molto cauta. La legge 30 offre una copertura istituzionale, giuridica a quelli che secondo l’Ilo sono lavori poco dignitosi, “indecenti”...».
Il modello italiano rispecchia altri modelli stranieri oppure siamo all’avanguardia?
«Siamo decisamente all’avanguardia... Anche se bisogna riconoscere che in un anno e mezzo il govermo Raffarin s’è mosso a lunghi passi in direzione analoga, restando comunque indietro. Ormai si manifesta una linea europea, inaugurata dai governi Thatcher in Gran Bretagna, però l’Italia si piazza in testa al gruppo, raggiungendo il massimo di etichettature giuridiche di lavori sempre esistiti».
Quindi, in sostanza, il paesaggio non cambia?
«Detto in modo un po’ paradossale, prima c’era il vantaggio che il lavoro “indecente” non era legale. La copertura legale si rivelerà un errore anche per le imprese: aumentando il numero dei lavori precari dentro le aziende, ne soffrirà la qualità... Soffriranno l’organizzazione, la memoria aziendale, la stessa efficienza organizzativa».
Cioè, per produrre a costi più bassi si produrrà sempre peggio. Con un risultato: minor competitività.
«Competitività che dovrebbe essere cercata attraverso la qualità del lavoro e una politica industriale che non esiste».
Le critiche alla rigidità del lavoro in Italia sono state assai diffuse, anche a sinistra...
«S’è assistito all’adozione più o meno consapevole di certi canoni neo liberali o liberisti. Se si guardasse agli indici di rigidità della forza lavoro, ci si accorgerebbe che l’Italia già da alcuni anni è a metà della classifica. Il mercato francese tedesco o austriaco sono molto più rigidi di quanto non fosse e non sia quello italiano, con una produttività e un costo del lavoro molto più elevati. Quello tedesco intorno al cinquanta. Si preferisce rincorrere la Spagna o la Grecia o magari l’Irlanda e naturalmente la Gran Bretagna piuttosto che i paesi che hanno una struttura industriale ben più robusta della nostra».
Altra motivazione della legge: fa emergere il lavoro nero. In questo senso può funzionare?
«Esiste una legge per l’emersione del lavoro irregolare e dell’azienda irregolare. Se non ricordo male, a fine maggio i lavoratori che avevano fatto richiesta di emersione erano meno di quattromila. Le posizioni irregolari sul mercato italiano sono circa cinque milioni. La legge è stata un fallimento. Che questa nuova possa contribuire in qualche minima misura è possibile, ma che riduca il fenomeno in maniera significativa ritengo sia del tutto irrealistico, perchè il lavoro nero continuerà a costare meno. La flessibilità italiana è stata quella del lavoro irregolare, come in altri paesi peraltro... La caratteristica del lavoro irregolare è sempre stata la precarietà, l’intermittenza, la chiamata, il part time, il non avere orari, la mancanza di tutele sindacali. Questa legge ratifica tutto ciò, ma aggiunge dei costi, perchè bisognerà pure pagare i contributi, pagare l’irpef. Flessibilità per flessibilità, uno si tiene quella vecchia».
Abbiamo letto della riforma previdenziale in Francia, dell’intesa sulla sanità in Germania. In Italia si discute in modo patologico di pensioni...
«Un attacco diffuso allo stato sociale. I problemi esistono, la cosiddetta transizione demografica può imporre certe modifiche. È lecito che si parli di riforma delle pensioni, però bisognerebbe pur dire che in Italia il monte retribuzioni sul pil è diminuito di sei punti in dieci anni e di altrettanto è diminuito il reddito disponibile alla famiglie. Il pil si è ridistribuito a favore di altri redditi che non sono solo profitti, ma sono anche rendite, patrimoni e così via. Resta il fatto che la quota del lavoro sul pil è fortemente calata come è calato il reddito disponibile alla famiglie. Poi si fanno i convegni lamentando la caduta dei consumi. Ma questa discesa incide anche sulle pensioni, perchè se la quota di pil destinato alle retribuzioni fosse di sei punti più alta, sarebbero più alti anche i contributi previdenziali. Il sistema pensionistico non è intangibile. Si dovrebbero però mettere sul tavolo tutte le carte, non solo quelle che fanno comodo».
L’atteggiamento così remissivo nei confronti del governo degli industriali si spiega solo con l’opportunismo politico?
«Credo che ci siano di mezzo una notevole mancanza di cultura industriale e un’adozione acritica dei canoni liberisti. In Confindustria sembra si sia affermata la componente con la cultura più modesta, più provinciale, meno strategica, meno orientata ai grossi temi dell’economia contemporanea. Le richieste confindustriali per rilanciare la competitività e lo sviluppo, per fronteggiare le sfide delle globalizzazione e le turbolenze dell’economia mondiale, fanno cadere le braccia: un po’ più di flessibilità, una burocrazia statale più trasparente, qualche facilitazione all’export».
E l’impresa pubblica
«Hanno fatto la guerra alle partecipazioni statali demonizzandole in modo inaudito, mortificando anche settori vitali. Si sono dati un po’ la zappa sui piedi. Se una struttura industriale si indebolisce, ne patiscono tutti. Di imprese pubbliche efficienti ne abbiamo ancora qualcuna, malgrado tutto: Finmeccanica o Fincantieri. Si dà il caso che i settori più avanzati e più dinamici in questo momento siano quel po’ che rimane di industria pubblica. Mentre il pezzo più grosso dell’industria privata, l’automobile, non sappiamo che fine farà...».
Come considera l’ultimo piano industriale presentato dalla Fiat?
«Positivamente, perchè per la prima volta da decenni si è parlato della Fiat come di un gruppo automotoristico. Una delle caratteristiche negative del recente passato era che la Fiat si occupava di troppe cose. Che poi riescano in tempo a produrre i nuovi modelli, ad accrescere la qualità... questo è un altro discorso».

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02.08.2003
Perché Indecente? glielo spieghiamo
di Luciano Gallino

Il ministro Maroni non gradisce si dica che la legge n°. 30/2003 introduce forme di lavoro poco decente. Proverò dunque a spiegare come chi scrive è arrivato a esprimere tale valutazione.
La nozione di “travail décent” o “decent work”, che si può tradurre tanto “lavoro decente” quanto “lavoro dignitoso”, è stata presentata in dettaglio nel rapporto dallo stesso titolo del direttore generale del Bit, Juan Somavia, che ha aperto nel giugno 1999 la 87esima Conferenza mondiale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (di cui il Bit è, per così dire, il settore operativo).
Essa suona: «Bisogna intendere con ciò un lavoro produttivo che va di pari passo con la protezione dei diritti, che permette d’ottenere un reddito sufficiente e di beneficiare d’una protezione sociale appropriata. Questa nozione implica inoltre (che un individuo disponga) d’un volume di lavoro sufficiente nella misura in cui ciascuno deve avere pieno accesso a possibilità di occupazione remunerativa».
La stessa nozione è stata tradotta in seguito dai ricercatori dell’Oit in una serie di indicatori empirici che misurano principalmente sette tipi di sicurezza, tra le quali spiccano la sicurezza dell’occupazione, del reddito, della valorizzazione professionale e della rappresentanza sindacale. La legge n°. 30/2003 e il suo decreto attuativo danno forma giuridica a tutta una serie di tipi di occupazione che sia per la loro natura contrattuale, sia per la marcata individualizzazione dei rapporti di lavoro che comportano, vanno in senso contrario a quasi tutte le forme di sicurezza indicate dall’Oit. Se queste definiscono il lavoro decente, la legge n°. 30 definisce, a mio avviso, una ampia tipologia di lavoro non decente o, se si preferisce, non dignitoso. Che tali forme di lavoro fossero presenti da tempo nell’economia irregolare o sommersa, non è un’attenuante, bensì un’aggravante. Una legge non dovrebbe legittimare il lavoro non dignitoso che esiste, ma creare nuovi rapporti sociali che rendano più agevole moltiplicare le occupazioni dignitose, ovvero i tipi di lavoro decente. Seguendo le indicazioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, istituzione in cui sono rappresentati i governi, le associazioni imprenditoriali e i sindacati di circa 180 paesi.


Fonte: L'Unità online



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