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Referendum, l'inizio di un percorso - domenica 29 giugno 2003 at 10:25

A quindici giorni dai risultati sul referendum sull'articolo 18 vale la pena di ritornarci con qualche riflessione.
Chi ha promosso quel referendum - giova ripeterlo - non voleva uno spazio politico e mediatico, non voleva solo dare ossigeno alla propria proposta politica. Voleva effettivamente espandere un diritto, voleva cominciare a porre le basi per risolvere il problema centrale del lavoro oggi: la sua precarietà. Quelle forze hanno perso. Ma sarebbe sbagliato fermarsi qui. Sarebbe sbagliato non vedere quello che il referendum ci ha restituito e segnalato. E sarebbe sbagliato non trarne una lezione. I quindici giorni che ci separano da quella sconfitta ci consentono di guardarla con più attenzione.

Il 15 e il 16 giugno oltre 10 milioni di persone hanno votato sì, si sono pronunciate cioè perché venga esteso anche alle piccole aziende la impossibilità di licenziare senza giustificato motivo. E' stato un voto esplicitamente e dichiaratamente antiliberista. Un voto, per la prima volta, offensivo e non difensivo. Il voto di chi vuole intervenire concretamente nel grande e tempestoso mare della precarietà e proporre l'inizio di un nuovo ordine. Dieci milioni di persone che vogliono queste cose non sono poca cosa. Non lo sono dal punto di vista numerico e non lo sono dal punto di vista qualitativo. Dal punto di vista numerico si tratta del 20 per cento degli aventi diritto al voto, e di oltre il 25 per cento di coloro che vanno effettivamente a votare. Un italiano su cinque o su quattro, a secondo del metodo di calcolo usato, ha fatto una scelta dichiaratamente di classe, dichiaratamente antiliberista. L'ha fatta in piena autonomia e dentro un giudizio così profondamente critico da travolgere l'invito all'astensione dalla maggior parte delle forze politiche. Si tratta più o meno dei voti di Forza Italia, cioè del più grande dei partiti liberisti. Ed é molto di più dei voti dei Ds, il secondo grande partito italiano. Si tratta di voti della sinistra e delle sinistre che su questa questione in modo sotterraneo hanno trovato un punto di convergenza e, in condizioni difficilissime, le hanno affermato. Quei dieci milioni non costituiscono ovviamente un partito e hanno fatto bene i promotori del referendum a non mettere il cappello su quel pronunciamento. Ma é giusto sottolineare il suo significato profondamente classista e radicale, il suo messaggio di alternativa sociale. Sul quale sarebbe bene che i dirigenti dei ds che hanno dato indicazione di astensione riflettessero. La maggior parte del loro elettorato ha ignorato l'invito a non recarsi alle urne.

E' un patrimonio prezioso, tanto più prezioso perché il risultato di uno schieramento unitario, di una costruzione antiliberista formata dalla Cgil, dall'Arci, da Riofndazione dai Verdi, dal movimento no global. Da un gruppo di organizzazioni politiche e sociali che si sono trovate insieme nella necessità di porre un argine alla deriva liberista e di dare una visibilità agli invisibili della precarietà.

La sconfitta non può nascondere questa analisi e queste verità. Le forze che hanno promosso il referendum non possono non farne oggetto di ulteriore riflessione. Anzi sarebbe sbagliato a questo punto archiviare quei dieci milioni di voti o rimuoverli perché base di una sconfitta referendarie. Le sconfitte non sono tutte uguali e non portano tutte alle stesse conseguenze. Nel 1985 quando si perse il referendum sulla scala mobile la sconfitta fu apparentemente meno cocente dal momento che si pronunciarono contro l'abolizione il 47 per cento dell'elettorato. In realtà quella sconfitta avvenne nel pieno di una ristrutturazione capitalistica che distrusse la compagine operaia e in un momento di arretramento complessivo dello schieramento sindacale soggiogato dalla teoria del salario come variabile dipendente dal mercato e dall'impresa. In poche parole quella sconfitta fu solo l'inizio di altre e più profonde disgregazioni. La sconfitta del 16 giugno é di altro tipo. Essa é avvenuta all'interno di un tentativo di ricostruzione; segna l'inizio di un nuovo ciclo difficile e contraddittorio ma che ha il segno positivo di una presa di coscienza critica e di una offensiva nei confronti delle politiche liberiste.

Il voto del 15 e 16 giugno insomma può anche essere visto come l'inizio di un percorso. Chi lo ha promosso saprà percorrerlo senza timidezze? Saprà usare di nuovo quell'audacia che l'ha portato a proporre o a sostenere l'estensione a tutti del diritto a non essere licenziato senza giustificato motivo? Molto nel futuro del lavoro e nel futuro del paese dipende dalla risposta a queste domande.
Ritanna Armeni
(29 giugno 2003)

Fonte: Liberazione online



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