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Un tedesco, dieci italiani - lunedì 24 marzo 2003 at 11:11

Fu l'ignobile risposta all'azione partigiana di via Rasella a Roma, dove morirono 33 nazisti
Un tedesco, dieci italiani

Cinquantanove anni fa la strage delle Fosse Ardeatine
Il 24 marzo di 59 anni fa, a Roma, era un bel venerdì di primavera, 199° giorno di occupazione tedesca. I giornali uscirono regolarmente coi programmi dei cinema e dei teatri (a orari antelucani per il coprifuoco), qualche notizia di cronaca (i soliti borseggi sui tram), le seguitissime informazioni sulla distribuzione dei viveri con la tessera annonaria. Il notiziario politico, con incredibili acrobazie verbali, cercava di convincere la cittadinanza che le truppe alleate ormai padrone di Cassino, sarebbero state "ributtate in mare", e riportava un entusiastico resoconto della celebrazione del 25° anniversario della fondazione dei fasci, tenuta prudentemente nel chiuso della federazione fascista repubblicana, con tutte le autorità civili e militari della Rsi e dei camerati tedeschi. Nessuno faceva parola dell'esplosione che aveva concluso la manifestazione. In via Rasella, a poche centinaia di metri, 11 giovani gappisti romani, dieci uomini e una donna, avevano compiuto un'azione contro l'11ª compagnia del Polizei-Regiment Bozen, aggregata alle SS, provocando 33 morti e un centinaio di feriti. Si trattava di un'azione militare aderente alle direttive del legittimo governo italiano di Salerno, che aveva chiesto "a tutti gli italiani, uomini e donne, di attaccare ovunque e comunque l'invasore nazifascista" ed esisteva una norma internazionale che vietava "rappresaglie sui civili" dei territori occupati, ma l'esercito nazista non aveva mai tenuto conto dei trattati e delle norme internazionali e preparava una vendetta dettata dall'aberrante ideologia della razza eletta contrapposta a schiavi subumani. Dieci italiani per ogni tedesco fu la proporzione decisa da Kesserling che conosceva la realtà della guerra e quella di Roma e temeva una rivolta popolare se avesse messo in atto l'ordine di Hitler che aveva urlato al telefono "30 italiani per ogni tedesco e fate saltare il quartiere con la dinamite". Le vittime furono scelte fra i prigionieri dei luoghi di tortura delle SS e della banda fascista di Koch, nelle carceri di Regina Coeli. C'erano tre condannati a morte per motivi politici, molte condanne a pene detentive di poco conto, altri in attesa di giudizio, ebrei incarcerati in quanto tali che aspettavano la deportazione, giovani pescati per caso nei rastrellamenti per le strade. Li scelsero Kappler, Koch e il questore di Roma Caruso, obbediente agli ordini tedeschi e così servizievole da aumentarne il numero peraltro già allargato da Kappler.
Trattative, selezione e preparativi furono svolti in tempi rapidissimi e nel più assoluto segreto. All'alba del 24 marzo 335 uomini furono trasportati da camion militari verso una vecchia cava di pietra in disuso, l'Ardeatina, appena fuori città fra i campi, un luogo abbastanza isolato. A gruppi di cinque vennero fatti scendere nella cava e uccisi con un colpo alla nuca: il più giovane non aveva ancora 17 anni, il più vecchio 70.

Muore con loro ma nell'erba sotto il sole, Fedele Rasta, un'anziana contadina che stava raccogliendo cicoria troppa vicina alla cava: non capì l'ordine gridatole in tedesco dalle SS che le sparò. Si salvò invece un prete, don Libero Raganelli che aveva seguito in bicicletta quei carichi di morte e chiese a un ufficiale tedesco di poter benedire i condannati. «Non si può passare» fu la risposta. «Se io la facessi passare lei farebbe la stessa fine di quelli là. Vada via subito prima che sia troppo tardi». Tornando a casa il prete informò la Resistenza dell'accaduto che Roma avrebbe conosciuto solo il giorno dopo. Un comunicato del comando di piazza tedesco dava notizia dell'azione di via Rasella e della rappresaglia e si concludeva con le famose parole: «L'ordine è già stato eseguito».

Quel marzo 1944 c'era sole e vento a Roma, come in ogni primavera, c'erano bambini a giocare per le strade con improbabili palloni, adulti al lavoro, casalinghe affaccendate, storie d'amore e liti di vicinato ma solo il sole e il vento erano davvero normali. La fame, i bombardamenti, i rastrellamenti, le persecuzioni di un paese militarmente occupato davano un senso e un colore diverso a ogni momento della vita quotidiana di tutti. Si moriva di fame, soprattutto vecchi e bambini, si moriva sotto le macerie della propria casa, si moriva senza perché per mano di un esercito spietato che considerava schiavi inferiori sui quali esercitare tutti i diritti a partire da quello di vita e di morte, tutti gli italiani, compresi quelli che si erano schierati al suo fianco.

Ma quell'esercito di superuomini aveva paura: pesantemente sconfitto dall'Armata rossa a Stalingrado, incalzato dagli angloamericani sapeva di non avere la sicurezza delle proprie retrovie nelle quali la Resistenza, a Roma come nelle città e nelle campagne di tutta Europa, lo combatteva avendo dalla sua parte l'arma sfuggente e invincibile della solidarietà popolare. Nasconderà una pistola nella borsetta la bella ragazza che passa sorridente e invitante? Avranno sparso i micidiali chiodi a quattro punte i bambini che si rincorrono gridando? Porterà una bomba il lavoratore che si avvia in bicicletta verso casa prima del coprifuoco? Nasconderà armi e partigiani il bel palazzo borghese, la povera casa popolare, la chiesa profumata di incenso?

Questo si chiedono i soldati, ragazzi appena usciti dalle scuole che li hanno educati nel culto della guerra e della vittoria, della dedizione a una patria alla quale un qualche dio ha comandato di asservire il mondo sterminando chi si oppone. Un nemico esiguo, mosso da torbido motivi o incapace di capire, e quindi condividere, il grande disegno di un nuovo ordine mondiale. E' la lotta del Bene contro il Male della quale vengono pudicamente velati i motivi economici e di potere. Ma quando la maggioranza della popolazione del mondo si schiera contro quel "Bene" le idee dei soldati si confondono, le loro certezze vacillano mentre si insinua il dubbio che la razza eletta possa perdere la guerra e che la guerra stessa possa essere sconfitta da quegli uomini, quelle donne, quei ragazzini che scrivono sui muri nottetempo, nonostante le ronde e il coprifuoco, le parole proibite: "Pane e pace. Pace e libertà". Quando da quei morti, tanti morti innocenti, per qualche misteriosa alchimia scaturiscono folle sempre più grandi, urlanti o silenziose, che si oppongono alla violenza, allo sterminio, alla morte che si compendiano nella parola guerra, allora anche l'investitura di linea viene messa in discussione.

«Mai più fascismo mai più guerra» giurarono concordi i popoli nel 1945, decisi a non permettere che nessun paese, nessuna razza, nessuna religione potesse arrogarsi il titolo di inviata da nessun dio per imporre i suoi interessi e il suo dominio ad altri. Oggi qualcuno sembra averlo dimenticato ma di nuovo folle vestite di arcobaleno riempiono le vie di Roma e del mondo per rinnovare l'antico giuramento.
Bianca Bracci Torsi

Fonte: Liberazione online

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