Franco Di Giorgi
La nostra abitudine al male altrui
Dopo l'ennesima e intollerabile strage di innocenti sul Mediterraneo, il pensiero va subito ancora una volta all'incipit del libro secondo del De rerum natura di Lucrezio: Dolce è mirar dalla riva, quando sconvolgono i venti / l'ampia distesa del mare, l'altrui gravoso travaglio, / non perché rechi piacere che uno si trovi a soffrire, / ma perché scorgere i mali di cui siam liberi è dolce: / è dolce assistere, senza che si partecipi al rischio, / gli aspri scontri di guerra in campo aperto: ma nulla / è dolce più dello starsene nei ben muniti castelli / che edificò la serena speculazione dei savi, / donde è concesso guardare gli altri dall'alto, e vederli / qua, là vagare, e sbandati cercar la via della vita... (trad. di B. Pinchetti). Sono versi che indicano nell'adiaphoría epicurea l'lemento che accomuna l'indifferenza umana alla speculazione filosofica. Agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, come sappiamo, dopo aver ascoltato alcuni testimoni della Sho’ah a Gerusalemme, in occasione del processo a Eichmann (verbalista alla Conferenza di Wannsee per pianificare nel '42 la soluzione finale della questione ebraica), la Arendt parlò di banalità del male. Ma oggi, dinanzi all'olocausto che si va consumando quotidianamente dinanzi agli occhi del mondo intero nel canale di Sicilia, a partire almeno dalla fine delle cosiddette primavere arabe, la banalità è un sostantivo ancora adeguato a inquadrare la "nuova" declinazione della violenza? Non sembra. Per esprimere la nostra normale convivenza con il male, vale a dire con la disumana umanizzazione della violenza o, per converso, con l'umana disumanizzazione delle persone (pensiamo al recente saggio di Roberto Esposito su Le persone e le cose), si è costretti a ricorrere a un altro sostantivo, forse ancora più banale del primo: all'abitudine. ...
continua
La nostra abitudine al male altrui
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